Tremonti disse, qualche anno fa (ma sembrano millenni): «Con la cultura non si mangia». Detto in Italia – che, da sola, ha circa la metà del patrimonio Unesco – è comicità involontaria; ma, tant’è. Eppure è sempre attuale: rappresenta sia un credo popolare sia un dogma quasi certo per imprenditori e amministrazioni. Villa Celestina, nelle intenzioni del progetto NOVECENTO che la comunità Ranauottolo caldeggia, sarebbe un bastione che unisce cultura, divertimento, rientro economico e fruibilità per i cittadini (si tratterebbe di secolarizzare in un museo tutte le glorie passate del luogo e a partire – ma non necessariamente – da quelle, creare iniziative, cicli stagionali, progetti da coltivare): un progetto non propriamente culturale, ma paraculturale sì. Affronto dunque, qui, il nesso fra ciò che è considerato remu
nerativo e ciò che è percepito come una destinazione d’uso culturale. E schematizzerò in tre posizioni, semplificate, tre diversi tipi di imprenditori alle prese con l’eventuale affare: a) il tremontiano convinto; b) il tremontiano per necessità e realismo; c) l’antitremontiano ma cinico. Ci vorrebbe una d), che descrivesse la figura del mecenate, l’imprenditore illuminato. Ma non lo possiamo prendere in considerazione, a occhio!
Il termine cultura è più ambiguo, ormai, di una drag queen. Con esso si intende ciò che VIENE PERCEPITO come tale: un museo, una mostra, un film palloso, una conferenza. Poi, magari, l’ipotetica conferenza è sul traffico urbano, che poco c’entra con la bellezza, gli stimoli, l’espressione umana creativa in tutte le sue forme – questo, penso, sia ciò che è cultura. Oggi va di moda la degustazione nelle aziende vitivinicole: bene, è cultura; va di moda il trekking: è cultura; non lo è solo il cinema iraniano con sottotitoli in slovacco! Ma la percezione è un po’ questa. Chiarito – da parte mia – cosa si debba intendere per cultura. Userò questo termine, per quanto logoro.
E spesso questa cattiva percezione non dipende solo dall’utente (che è pigro e non comprende che coltivare lo spirito è la via per una vita dolce e sincera) ma anche da chi offre un servizio culturale: l’addetto ai lavori cade nell’errore di trincerarsi, di pensare che venga a mancare la… cultura, se la comunicazione è semplice; se c’è troppa gente; se si viene incontro all’utente. Beh, al Capodanno musicale di Vienna non sarebbero molto d’accordo! E nemmeno agli Uffizi o a Venezia! E Mozart si farebbe due risate: lui stesso andava a vedere, divertendosi come un matto, le parodie delle SUE stesse opere. Però, è nata già da qualche anno in Italia una figura imprenditoriale (c) che in maniera troppo cinica HA COMPRESO che la cultura ne fa fare eccome, di soldi, ma trasformandola del tutto in un prodotto, snaturandola : basti pensare a tutte le mostre che hanno nel titolo un nome come Van Gogh o Picasso (i quali attirano – bontà loro – le folle) per poi andarle a vedere e scoprire che, di Picasso, ci sono solo un paio di stampe! Se c’è l’inganno, che cultura è?! Eppure, mi tocca affermare che c’è anche del meritorio in questa fusione fra Arte e Mercato; il curatore di mostre Goldin quando lavorava a Treviso o la politica del Palazzo blu a Pisa, con dei barbatrucchi, portano e hanno portato secchiate di gente a vedere quadri, invece che far fare loro la processione all’Ikea.
Fa da corollario a tale confusione percettiva un’altra figura (b): è d’accordo con Tremonti, ma se ne dispiace. Ha imparato a pensare che promuovere la cultura non fa girare soldi. In parte è legittimato: si trova davanti molti esempi che glielo fanno pensare. Però, non pensa a Étretat, una località di mare francese con scoglioni e spiaggia, il cui turismo (di livello continentale, almeno) è COMPLETAMENTE incentrato sul fatto che Monet ne abbia ritratto, un secolo fa, i paesaggi; non pensa, senza fare altri esempi, che con UNO SOLO dei patrimoni storici di Castiglioncello – scegliete: i reperti etruschi; la pittura macchiaiola; il mondo della Dolce Vita, “filiale” di quella romana, e del cinema; andate avanti voi! – si creerebbe (se ben organizzato) un turismo continuativo anche in Lapponia. Quindi, bisognerebbe concentrarsi sul business ben fatto piuttosto che sul tipo di business sicuro. Tento di spiegare la differenza. Il business ben fatto è sicuro, senza per questo cedere il passo a ciò che è sicuro in un dato momento: la SPA (Villa Celestina è troppo piccola per una SPA, ma capisco chi la cita), la Talassoterapia, il paventato da alcuni Casinò; certamente potrebbero essere realizzati bene: altrettanto ben fatti. Infatti, business sicuri non vuol dire per forza mal fatti: vuol dire solo che hanno come punto di partenza ansiogeno il fare-soldi-da-subito-e-tanti. I business sicuri, in questo senso, sono soggetti al tempo.
Urge una piccola e semplificatissima analisi socio-economica, allora. Oggi esiste ancora 1) una generazione (massimo due) che può godere dei privilegi del proprio lavoro di una vita e, ora, vuole solo rilassarsi (non vuole nemmeno sapere come si chiama il proprio massaggiatore, basta che massaggi!), o 2) il lavoratore dal ceto medio, all’alto, all’altissimo che sta bene economicamente – ma è un alienato. Ancor più della prima casistica, legittimamente non vuole sapere niente di Arte povera, bambini che muoiono e concetti superiori al cocktail reiterato: vuole solo rilassarsi. Talvolta, anche con una pillola sintetica di cultura, come il broker che fa la passeggiata con la guida escursionistica mentre uno accanto gli recita Dante (non è un esempio iperbolico: è un format esistente); egli vuole dimenticare che tornerà a gestire denaro, avrà responsabilità, penserà a una conference call tutto il giorno. Le SPA e tutte le …-terapie esistono perché rispondono a queste fasce sociali, a questi tipi umani, semplicemente perché queste fasce e questi tipi esistono. Ma sappiamo che il futuro non vedrà questo scenario: ci sarà la persona che vivrà di lavoro flessibile (e ha bisogno di un relax altrettanto flessibile: non di un oggetto statico e costoso); ci sarà una forbice fra benestanti e gente-che-s’arrangia più larga di quanto non sia ora (e il super-benestante, se deve scegliere, non sceglie Villa Celestina-SPA o business sicuro che sia: sceglie direttamente il massimo e va a Dubai, o in Italia, ma dove c’è lusso ovunque, non in un posto solo. Mentre chi si arrangia, la SPA la vede in cartolina; al massimo, può andare a Ferrara a vedere la Spal giocare). Ecco il punto focale che non coglie né l’imprenditore che non crede nel binomio cultura/soldi, né quello che ci fa soldi snaturandola, né quello che vorrebbe promuoverla ma sa che la realtà è crudele: i business sicuri, quelli per cui il ritorno di denaro è immediato, sono costretti – come le attrici di oggi – a rifarsi il ritocchino, ogni volta che il relax assume nuova forma.
E quante forme, quante trasformazioni sono già accadute, quando bisogna creare una circolazione di persone e, perciò, di denaro! Ci sono stati gli anni in cui il must erano le balere, sostituite poi dalle discoteche anni Settanta che, a loro volta, hanno saputo rigenerarsi in altra forma negli Ottanta (il Ciucheba ‒ ricordo ancora una classifica sulle discoteche più importanti d’Italia, apparsa su Panorama, mi pare ‒ era all’ottavo posto: Abatantuono, Calà, Zero, davano lustro a quel centro di divertimento). Poi, col New Age, gli anni pazzi dell’aromaterapia, cromoterapia, qualcosaterapia; la meditazione adattata per l’Occidente (che oggi ha assunto le sembianze del Mindfulness; poi, chissà come ci avvicineremo alle nostre sensazioni più recondite, come carezzeremo il nostro Io, domani l’altro!); le varie Montecatini Terme che hanno lasciato il passo ai centri termali in cui l’agio viene ancor prima del fatto che le terme siano naturali o meno; e oggi, il termine “SPA” domina incontrastato il contenitore del riposo che ogni lavoratore si merita. Domani, ci sarà qualche altro status symbol del relax, che prenderà il posto di ciò che oggi lo rappresenta.
Sempre a inseguire, insomma: che fatica! Mai rinnovare, creare, partendo da ciò che c’è già! Come i localetti che puntano sulle band alla moda invece che coltivare un progetto, una proposta affine a quel che si sente. Ma se invece il localetto ha il gestore che ama veramente il folk (ad esempio), questi saprà aspettare, non avrà paura che la gente all’inizio manchi: pian piano, si creerà uno zoccolo duro di aficionados e il gestore avrà creato un piccolo cult attraverso il proprio locale. Con in più, la soddisfazione di attirare nel proprio locale coloro che amano le sue stesse cose! Un buon esempio ce l’abbiamo a Castellina, col Papacqua: ci si può suonare per davvero, bere vino in modo industriale, e poi trovarsi a leggere una poesia dopo aver bestemmiato; perché Dario del Papacqua (per chi lo conosce) è così per davvero. Perché non bisogna scordarsi mai che non si dovrebbe snaturare ciò per cui qualcosa è bello, o interessante. E Castiglioncello è bella per quello che è (sarebbe!), non perché potrebbe diventare una nuova piccola Rimini, una nuova Forte dei Marmi, una nuova Porto Cervo: c’è già, un’identità! Va solo valorizzata senza paura che ciò non porti ricchezza. Oltretutto, questa posizione che sto cercando di esprimere vale per Villa Celestina come epicentro di qualcosa di più ampio che riguarda tutta Castiglioncello; nella quale, saranno stra-benvenuti i business sicuri, come il già citato Ciucheba: quello, è giusto che si rinnovi in base al mondo (purtroppo, il Ciucheba non fece in tempo ad attualizzarsi: i decibel gli furono fatali, e questo è agli atti! Di un notaio, per la precisione, se non sbaglio). Perché è un’idea che diventa un luogo! Ma dove c’è già un luogo che ha per sua natura un’idea dentro, perché estirpargliela di dosso?!
Insomma, gli imprenditori e le amministrazioni prendano coscienza del fatto che se ragionano per il giorno dopo e non in prospettiva, continueranno a vedere in Villa Celestina una patata bollente da pelare una tantum; e, soprattutto, che non faranno della poesia gratis, se destineranno l’edificio a una circolazione culturale, a un luogo in cui ai castiglioncellesi, nel giorno più buio di febbraio, può venire voglia di passarci del tempo. Questo, porta ricchezza – no, non parlo di quella spirituale! – in modo continuativo, per tutti, e con un’attitudine naturale alla flessibilità, poiché se in un inverno ci sarà un ciclo di corsi su… la talassoterapia! e una stagione musicale dedicata alle grandi colonne sonore, l’anno dopo ci sarà qualcos’altro. E ferma, solida, la pagina di Storia che è stata Castiglioncello da quando è nato, di fatto, come paese a tutti gli effetti: da Martellli ai macchiaioli, da Pirandello a Tofano, da Mastroianni a Il Sorpasso a Mina a Laver alle sceneggiature (qui, sono state scritte!) di Suso Cecchi D’Amico, a Zero e Enzo Trapani; tutti insieme, da visitare, studiare, come fonte d’ispirazione; non, come tristi ombre di ciò che non siamo più come paese.
Una soluzione che sarebbe ovvia, in altre nazioni, ma non qui – qui, in Italia, così abituati al nostro cibo, alle nostre bellezze, che non capiamo che abbiamo davanti a noi un petrolio non destinato ad esaurirsi: e qui nello specifico, a Castiglioncello, dove fa la sua parte pure una certa diffidenza diffusa, una certa spocchia figlia dei “bei tempi”, una mancanza di curiosità generata dalla sfiducia nei confronti di un progetto complessivo per il paese (se vogliamo dare una data di comodo all’origine di tale sfiducia, si potrebbe chiamare in causa il tentativo non andato in porto, nei Sessanta, di diventare Comune a sé, proprio quando il luogo godeva di una luce propria, non riflessa e affievolita come quella di adesso).
La sintesi – che vale per tutto e sembra un’ovvietà, fino a scoprire che non lo è quasi mai – è che la differenza la fa non il cosa (cosa porta soldi? Cosa ci si fa, lì?!), ma il come (come lo si fa; come si portano soldi); altrimenti, ogni volta che il budget è lussuoso, dovrebbe venir fuori qualcosa di remunerativo, e ogni volta che il budget è basso, qualcosa di bassa lega; ci sono fin troppi esempi in tuti i campi per sapere che non è così. La differenza la fa il gusto e la comprensione di quale sia la vocazione di una persona, di un edificio, di un luogo. E la vocazione di Villa Celestina (fin dalla sua architettura, esempio dell’estetica razionalista) è di rappresentare il Novecento – il nostro Novecento – perché uno dei futuri del turismo è comprendere che c’è più distanza reale fra il 2016 e il 1988 che non fra il 1988 e il 1900: nel primo caso, un’epoca è finita e ne è iniziata un’altra. Il Novecento è già archeologia: è diventata Storia da illustrare, osservare, apprezzare.
Una volta compresa questa vocazione, Villa Celestina potrà essere un luogo di aggregazione della gente – non per episodiche mostre, corsi, o assemblee; ma per cicli progettuali di divertimento e cultura, stagioni aperte a più canali: teatro, cinema d’essai, happening; pensate solo a un’apertura settimanale per un aperitivo – e nomino una cosa che personalmente mi fa cacare! – sulla terrazza, con quel panorama (un bar c’è già, non va costruito): l’aperitivo dei castiglioncellesi, e di chiunque voglia condividere qualcosa da bere e un po’ di musica, per parlare, per sfottersi: un ritrovo che non appartiene a nessun locale perché apparterrebbe a tutti! Castiglioncello è un luogo sospeso nel tempo proprio perché non vuole rendere Storia il proprio passato recente; e soprattutto perché, per via del suddetto passaggio epocale, il passato recente è al contempo già lontanissimo.
Vicinissimo e lontanissimo (far away so close!): Walter Benjamin, un grande pensatore della prima metà del Novecento, descriveva la natura dell’aura – quella specie di magia che emana da una statua greca, quella evocazione misteriosa delle opere d’arte uniche – come ciò che era al contempo lontano e vicino: proprio le stesse caratteristiche di quel che aleggia in mezzo a noi e non vogliamo far diventare Storia. Di più, non si dovrebbe poter desiderare.
PS E il tutto costerebbe anche meno di ogni altra scelta! Andrebbe riempito, l’edificio, non rifatto (se non in modo non strutturale, al suo interno, per dare agio al carattere del progetto in questione)- tanto per chiudere con una nota pragmatica.